MINIPROGETTO: UN PICCOLO NIDO PER GLI ESCLUSI
P. Bernardino Faralli Missionario

Onitsha: (da sinistra) P. Bernardino,P. Peter,P. Giulio,P. MarioJuliana N. Okoye, ragazza ventisettenne di Enugu (Nigeria), madre adottiva di Ebele (per quest’ultima è stata inoltrata richiesta di Adozione a distanza) fin da giovanissima, animata da autentico spirito evangelico, ha deciso di rinunciare al matrimonio e, pur restando nel mondo, di dedicarsi ai bambini buttati via.
Già in passato aveva raccolto lungo la strada un bambino di due anni, facendo curare la madre demente e appena questa cominciò a star meglio, fu riunita al suo bambino, che nel frattempo stava frequentando la scuola materna; insieme erano poi ritornati al villaggio. Recentemente Juliana aveva raccolto una neonata, gettata tra le immondizie: la bambina era stata venduta, ma siccome aveva una gambina difettosa, era stata rifiutata dal compratore e gettata via.
Aiutaci ad accogliere i bambini che nessuno vuole! A forza di ricerche Juliana era riuscita a rintracciare la madre della neonata e a convincerla, anche con l’aiuto dei frati, a riprendersi la bambina e insieme ritornare al proprio paese. Juliana, pur avendo assunto piene responsabilità di madre adottiva nei confronti di Ebele, vorrebbe continuare a raccogliere qualche altro bambino buttato via; una sorella più giovane è disposta a stare con lei per aiutarla (lo ha già fatto saltuariamente in passato). Il problema è che Juliana vive con Ebele in un’unica stanza in affitto, col tetto che perde. Le occorrerebbe un mini appartamento, ma non ha soldi per affittarlo dato che, al momento del contratto, occorre pagare due intere annate in anticipo, circa 750 dollari; in seguito la periodicità sarà mensile e quindi più facile da affrontarsi. Se questo aiuto arriva, potremmo essere agli inizi di una piccola opera di carità, con possibilità di sviluppi: una iniziativa che prende il Vangelo sul serio, radicata nella fede e concretizzata nell’amore che si fa dono. q

NUOVI ORIZZONTI PER I CAPPUCCINI IN NIGERIA
P. Giulio Galassi, Custode della Nigeria

Rampur - India - P. Lanfranco durante una pausa riflette e guarda... al futuroNell’ultimo Capitolo della Custodia, presieduto dal Ministro Generale, egli ci raccomandò di aprire la prossima casa in un villaggio, a scopo formativo per i nostri post-novizi e/o postulanti, e a scopo di evangelizzazione. Ora la Provvidenza ci è venuta incontro offrendoci un’ottima occasione. Il villaggio si chiama Okokhuo. É un tipico villaggio africano con le case dai muri in terra battuta e la popolazione ancora in gran parte pagana. É situato su un’ampia collina ad una ventina di Km. oltre la città di Benin, non molto lontano dall’autostrada Onitsha Lagos-Ibadan, due ore e mezzo di macchina da Onitsha, tre da Ibadan e quattro da Lagos.

Lì, fra gli anni ’50 - ’70, esisteva una Fraternità di Terziari Francescani a cui la Comunità del Villaggio aveva donato un vasto appezzamento di terreno. Durante la guerra civile del Biafra, non ricevendo nessuno aiuto dall’estero, i Brothers si dispersero e la terra fu presa in consegna dall’Arcidiocesi di Benin. Il Vescovo l’aveva lasciata libera, disposto a darla, gratuitamente e in perpetuo, ad una Congregazione francescana che ne avesse fatto richiesta.

Venuti a conoscenza della cosa, il sottoscritto P. Giulio e P. Peter Achuonye, primo Consigliere della Custodia, accompagnati da P. Felix Chinagu, uno dei pochi superstiti di quella fraternità di Terziari ed ora prete diocesano, siamo andati ad Okokhuo. Ricevuti dagli anziani e dalla gente del villaggio siamo entrati, per ora solo come esploratori, nella terra promessa, una vasta superficie in parte foresta e il resto ottimo terreno coltivabile, il tutto per metà circondato da un fiume di limpida acqua, anche durante la stagione delle piogge.

Al ritorno ci siamo fermati a Benin City e ricevuti dall’Arcivescovo Mons. Patrick E. Ekpu, a cui abbiamo fatto la nostra richiesta di aprire una casa nel villaggio appena visitato e così rianimare lo spirito francescano nell’antico regno del Benin. Egli ha gradito la nostra richiesta e l’ha accolta come una benedizione del cielo. Ha promesso anche di trovarci una casa in città dove poter stare temporaneamente, finché non sarà pronta quella ad Okokhuo, la quale ovviamente sarà una semplice abitazione a pianterreno per 10-15 persone.

Nello scorso mese di Agosto, durante la Visita Pastorale, P. Stefano Baldini, Ministro Provinciale della Provincia Toscana, ha voluto giustamente verificare quanto detto sopra. Così il 17 dello stesso mese si è recato ad Okokhuo, accompagnato da noi e dai delegati dell’Arcivescovo, che ci hanno presentato di nuovo agli anziani e alla gente del villaggio e poi accompagnati a prendere visione della terra offertaci dove, prima di partire, abbiamo pregato sulle rovine di quello che era un tempo il piccolo monastero dei Terziari Francescani.

Il conventino di Okokhuo dovrebbe essere pronto almeno entro il 2002 per potervi mandare i nostri post-novizi. I possibili iniziatori di questa impresa potrebbero essere qualche volontario dalla Toscana più qualcuno dalla Custodia. Se non arrivassimo con le nostre forze dovremmo chiedere aiuto al Ministro Generale.

Infine è interessante ricordare che i Cappuccini, fra cui il nostro P. Bonaventura da Firenze, iniziarono ad evangelizzare quelle popolazioni già nella seconda metà del ‘600 (cfr. "La Missione dei Cappuccini in Benin e Warri" - Tesi di laurea del Salvadorini).

Riteniamo questa iniziativa necessaria e attuabile, anche se con sacrifici e confidiamo nel consenso e sostegno dei Superiori, di amici e benefattori.q

Riportiamo volentieri le parole con cui una giovane donna ha motivato la sua scelta di una borsa di studio (£ 4.000.000) per i frati nigeriani:
«Non immagini la mia gioia nel fare questo gesto: non lo vivo come il ricco che dona al povero ma come mettevano ogni cosa in comune. É, per me, essere parte della nostra Madre Chiesa
e contribuire così con quello che posso».

 

IL POPOLO MUTO DELLA RECLUSIONE
P.Stefano Casamassima

Torno a scrivere dopo aver assistito ad una commedia, su canovaccio amnistia-indulto, che ha visto impegnati attori di maggioranza e d’opposizione e risoltosi in un grande bluff. Mentre i media, incapaci di suggerire la trama del bene comune, continuano a colpire l’emozione oscillando tra un buonismo incosciente ed un giustizialismo ottuso, si riaffacciano di dietro le sbarre i volti di 53.000 detenuti (11.000 in più rispetto alle possibilità delle strutture).

51.279 uomini e 2.228 donne fanno capolino per ricordare la loro esistenza. Giovani (52 % tra i 18/35 anni), senza lavoro, meridionali ed extracomunitari (26 %), malati mentali, tossicodipendenti (28 %), sieropositivi (forse 5.000). Persone intrecciate da deficienze familiari, educative e sociali, con tassi di istruzione bassissima (per oltre il 60 % uguale o inferiore alla licenza elementare).

In grossa parte è questo il popolo muto che dal decentramento della reclusione offre un confronto con l’alto profilo della nostra (!) costituzione: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato» (Art.27).

Mi si permetta una digressione sulla posizione giuridica delle persone detenute. Al 31 dicembre 1999 insieme a 27.865 persone condannate definitivamente, 23.949 persone si trovano in carcere in attesa di giudizio.

Dato che la costituzione nel luogo precedentemente citato dice: «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva» ciò significa che nelle nostre sovraffollate carceri si trovano quasi 24.000 presunti innocenti trattenuti in custodia cautelare. Non male se ricordiamo che gli estensori della carta costituzionale conoscevano il carcere per averlo subito ingiustamente.

Ma ritorniamo al nostro condannato, che sintetizzato in impronte digitali uniche, ci richiama alla bella responsabilità di levatrici che attivamente assistano il travaglio di una rinascita personale e sociale. Egli rilancia il compito di trasformare quei meccanismi di difesa, quelle strategie di sopravvivenza e di affermazione messe in atto fino ad ora per ritagliarsi un posto alla tavola della vita.

Ora che si ritrova incartato in pagine di cronaca nera a scopo di audience, e quindi di lucro, dagli stessi media che l’avevano adescato con uno stile di vita opulento da realizzare senza gran fatica. Ora, ci chiede conto d’una cultura criminogena, incensurata dal disimpegno sociale, in cui è cresciuto e da cui è stato educato.

Non è figlio del nostro pensare ed operare questo ladro d’una gioia di vivere virtuale, facile, dietetica, griffata, miliardaria, stupefacente, eccessiva, ecc.? Che sia il capro espiatorio d’un reato collettivo inarrestabile?

Nell’acquosa abulia di questa fine estate alcune domande dal carcere per coloro che vogliono prevenire la sclerosi d’intelligenza e sentimento.

Chi si fuma il loro contrabbando? Chi usa la loro prostituzione? Chi campa sulla loro lunga agonia di tossici? Chi si arricchisce sulla loro immigrazione? Chi fa di donne e bambini oggetti di condimento per spettacoli o cose da vendere?

Chi promuove l’idea che alla felicità si accede con le scommesse? Chi fa della vita un valore talmente manipolabile a piacere, da lasciar credere che all’individuo tutto sia permesso? Chi è, o chi sono, gli imbonitori d’una cultura della violenza e della morte, in se stessa incapace di vita per tutti?q

Per contattare P. Stefano (cappellano del Carcere di Pistoia): Tel. 0573 23129 Convento Cappuccini via degli Armeni 14 - 51100 Pistoia

Kongwa: 50° di P.Egidio Guidi
P.Corrado

P.Egidio GuidiFissata la data, si è deciso di celebrare il cinquantesimo anniversario della consacrazione alla vita religiosa cappuccina di P. Egidio Guidi, durante questo incontro della Comunità Missionaria Toscana con il Segretario P. Corrado .

P. Egidio è stato circondato dai confratelli presenti all’incontro con tanto affetto e simpatia e non solo dai quelli che da anni gli riconoscono doti e profondo spirito apostolico e missionario, ma anche da tutti i partecipanti al campo di lavoro, siano stati vecchi o nuovi dell’esperienza.

Per me, che non sono più nuovo di presenze in Tanzania, è stato un momento ricco di emozioni e di ricordi. Innanzitutto è motivo di grande gioia constatare che, rispetto al tempo delle mie prime visite in questo territorio, oggi le condizioni sono migliorate: non si vedono più in giro pancini gonfi da avitaminosi coperti di un misero straccio, i bambini in genere sono nutriti e curati. L’abbigliamento, sia dell’uomo che della donna, manifesta il superamento della miseria in cui la popolazione viveva anni orsono, anche se rimangono ancora grandi sacche di povertà e la minaccia della malattia del secolo che falcia vittime senza pietà, cioè l’Aids.

In questo contesto i Missionari restano per la società civile, oltre che per la chiesa, punti di riferimento solidi come colonne, in un certo senso al riparo dal tempo e dai cambiamenti. E qui, in questo 13 settembre, li abbiamo riscontrati quasi tutti. I capelli sono più bianchi come le barbe, ma l’entusiasmo vigoroso e contagioso è quello di tanti anni fa. C’è P. Egidio, il festeggiato, primo parroco di Mlali, soprannominato Uomo della notte, mito viaggiante con occhi a scienziato pazzo, come l’ha definito una bambina, sempre uguale a se stesso senza possibilità di cambiare. Così abbiamo trovato P. Fabiano Cutini l’attuale parroco di Mlali unito alla nuova stazione Missionaria di Kibaigwa, laborioso artefice di una sorta di politica di auto-aiuto che ha reso la gente di quei luoghi più responsabile. Così il P. Enrico Briganti, un po’ disturbato da qualche acciacco, ma sempre pronto a tornare sul fronte. Intorno al P. Egidio non poteva mancare P. Mario Maccarini venuto da Dar Es Salaam, che nel passato ha fatto spesso coppia con Egidio nelle missioni più disagiate, ancora scolpito nella roccia di una autorevolezza senza età. Presente anche il Gosto, pilota impavido di trattori e Toyota, con qualche serpente a cui schiacciare il capo e P. Leonardo apparentemente inquieto e sanguigno come ai tempi di Mwapwa... così troviamo Silverio, imperturbabile e sorridente a cui mancava questa volta il contemporaneamente serafico e scettico fratello Borri. Ci sono mancati, per forza maggiore, P. Pietrino, col suo basco a maquis francese degli anni quaranta e le braccia muscolose di un ragazzino; purtroppo è rientrato recentemente per motivi di salute. Fisicamente assenti per impegni non derogabili sono stati ancora Fr. Giorgio Picchi, cuoco delle prime esperienze, sempre aggrappato alle vocali aperte di un esilarante livornese, cantilenato anche in Swahili; così pure mancava anche P. Silvanino Nardi, missionario nella terza età, e Stany in cerca di fondi per il Kituo, sempre felice juventino. Spiritualmente presente P. Vincenzo, che data la sua collocazione nella casa di ritiri, non può abbandonare il servizio di confessore, in un periodo di presenze numerose nella casa di Mbagala.

Alla festa era assente anche Suor Valeria, la mamma di tanti anni fa, ma c’era il gruppo delle sue prime figlie africane, ora sorelle della congregazione, che sul suo esempio rinnovano gesti di carità fraterna e dispensano tenerezze materne ai numerosi bambini che convengono alla missione. Possiamo dire che molto è cambiato rispetto al passato e ne siamo felici, perché è segno di crescita e di promozione umana e cristiana. Molto è anche rimasto uguale, in particolare il valore più grande che ci ha permesso di sentirci ancora in servizio con lo stesso entusiasmo dei primi anni: la giovinezza dello spirito, che è partecipazione della vita di Dio e ha fatto dire a tutti: come ieri - oggi - sempre.q

 
Muhimbili: il più grande ospedale del Tanzania
Fr. Giorgio Picchi

Dar Es Salaam: Fr. Giorgio con alcuni dei suoi bambiniSono rientrato in Italia per un periodo di riposo come è di consuetudine per i missionari; ogni tre anni un piccolo ritorno per respirare l’aria natia e ritemprarsi un poco.

In questi giorni basta accendere la televisione e subito le prime notizie che ti presentano, sono quelle della super-mamma. Una donna che deve partorire ben otto gemelli; certo è una notizia che fa colpo in un paese dove si stenta ad avere più di due figli.

Questa donna da quanto ho potuto capire è stata portata in un grande ospedale, circondata da ben 130 persone tra primari, dottori e infermieri di qualsiasi qualifica, che al primo sintomo di parto saranno tutti lì pronti ad aiutarla perché tutto proceda per il meglio. Giustissimo, tutte belle cose, buone e caritatevoli, però se scendiamo un poco più a sud dell’Italia e ci immettiamo nel continente che la segue, l’Africa, tutto cambia: le stesse donne anche se di colore differente, non hanno quella assistenza come la super-mamma. In Africa la donna partorisce dove si trova: nei campi, per strada, in casa e questo avviene senza gruppi di specialisti che l’assistono, fa tutto da sola.

Dopo ben ventidue anni di missione nell’interno del Tanzania, da due mi trovo a Dar Es Salaam, nella parrocchia di Upanga e, guarda caso, faccio parte del gruppo parrocchiale che, per volere della Diocesi, visita e assiste gli ammalati del più grande ospedale del Tanzania, Muhimbili che si trova nelle vicinanze della nostra parrocchia. Due volte la settimana facciamo la nostra visita agli ammalati, portando quello che la carità dei parrocchiani ci ha dato. Pensate che l’Ospedale ospita ben tremila ammalati in ventotto reparti. La cosa che mi ha colpito di più e che volevo farvi notare è che, nel reparto di maternità (di cui la nostra presidente del gruppo è infermiera) le donne non hanno nemmeno un letto per partorire e manca persino una macchina per l’anestesia; e questo è un ospedale nazionale governativo, cosa da non credere! Eppure è verità. Ogni ammalato, se vuole guarire, si deve comprare le medicine, mangia una volta al giorno; e quando per il super affollamento i letti non bastano, gli ammalati che arrivano, si mettano sotto il letto di un altro ammalato.

Questo è quello a cui si assiste nel grande ospedale di Muhimbili. Spengo la televisione e faccio la mia riflessione, e paragono la super-mamma e una mamma africana. Siamo nel duemila dove almeno si pensava che dopo tanto tempo ci fosse almeno un poco di uguaglianza. Lascio ogni commento a chi legge! Se qualche dottore o chiunque altro volesse aiutare a migliorare la situazione di questo ospedale o aiutarci ad acquistare un letto o una macchina per l’anestesia, è bene accetto. Ricordiamoci che l’ultimo vestito che ci cuciranno sarà senza tasche!q

Farsi voce
Leopoldo Campinotti

Diamo voce alle deboli casse dei nostri fratelliIl gruppo di formazione alla mondialità e azione missionaria "Farsi voce" è nato dall’esigenza di alcune persone di diverse parrocchie della Valdera, di dare un seguito all’impegno giubilare sui temi del "Riposo della terra", "Liberazione degli schiavi" e "Remissione del debito". Per chiarirci le idee abbiamo iniziato ad inseguire per l’Italia chi di tutto questo ne ha fatto una scelta di vita: i missionari. Condividendo con loro tanti momenti di riflessione e sensibilizzazione alla mondialità, ci siamo accorti che la loro richiesta preminente non sono le offerte in denaro, bensì la partecipazione attiva ai drammi del Sud del mondo. L’offerta in denaro diviene consequenziale ad un cammino che, per prima cosa passa attraverso la conoscenza dei mali che affliggono la nostra società multirazziale, multietnica, multipolitica - ma sempre più monoeconomica e monocommerciale - per arrivare a chiederci una reale conversione del nostro stile di vita. Capire perché questo mondo fa i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri diviene prioritario su qualsiasi progetto di sviluppo. Ci siamo anche chiesti se tutto questo poteva convivere con il caro vecchio amato gruppo missionario parrocchiale. Quello per intenderci delle raccolte di fondi, delle preghiere per i negretti, dei pacchi dono per i missionari. Crediamo che debba essere vissuto come l’evoluzione di tutto questo. A volte infatti è per noi più facile far tacere la nostra coscienza con una piccola offerta o con un grande container destinato ad alleviare le sofferenze di molta povera gente: ma ai missionari questo è sufficiente?

Di fronte ai drammi senza speranza di intere popolazioni, l’impotenza dei missionari si fa denuncia contro un sistema che stritola i più poveri per soddisfare i bisogni, molte volte superflui, di pochi: che poi saremmo proprio noi, coinvolti e talvolta complici, con i nostri consumi e le nostre scelte quotidiane, della creazione di strutture di peccato che riducono in schiavitù e miseria milioni di esseri umani. Da tutto questo abbiamo sentito la necessità di informarci per capire, formarci per cambiare mentalità e guidare la nostra azione che deve essere quotidiana, progressiva e paziente, verso la costruzione di quel Regno di Pace e giustizia indicatoci da Cristo.

Siamo consapevoli che questo profondo cammino di conversione non possiamo farlo da soli: il confronto con la Parola di Dio e il magistero della Chiesa ci accompagna nella speranza di poter essere veramente al servizio delle nostre comunità parrocchiali e dell’umanità sofferente.q