1. Accendere il fuoco della missione...
Dalla lettera del Consiglio episcopale permanente alle comunità
cristiane per un rinnovato impegno missionario “l’amore
di Cristo ci sospinge”, I - Accendere il fuoco della missione:
“sono venuto a portare il fuoco sulla terra (Lc 12, 49)”
1. Questo miracolo avviene anzitutto quando, per l’ispirazione
dello Spirito Santo, noi diciamo: «Gesù è Signore»
(1 Cor 12,3). La coscienza missionaria nasce e si forma nell’incontro
con Cristo. Ne deriva che ogni debolezza cristologica indebolisce la
radice stessa della missione. Forse sta proprio qui la ragione di certe
nostre esitazioni. Accanto a una forte ricerca teologica, per altro
già in atto, lo slancio missionario richiede una forte spiritualità
di cui, forse, siamo ancora carenti.
Senza dubbio la vivacità missionaria delle prime comunità
cristiane - di cui parla il libro degli Atti degli Apostoli - nasceva
dall’esperienza di un personale incontro con Cristo. L’urgenza
della missione nasce dall’interno, e la stessa convinzione che
Cristo è atteso da ogni uomo è colta a partire dalla propria
esperienza di incontro con lui. È questa la risposta al “perché”
della missione. La riflessione teologica chiarisce e rende rigorosa
questa spinta interiore, ma non basterebbe in nessun modo da sola a
suscitarla. Indugiare troppo sul “perché” della missione
può essere un segno della debolezza della nostra fede.
Non si abbia paura di questa forte accentuazione della centralità
di Cristo. Essa non mortifica il dialogo con le altre religioni, né
impedisce di riconoscere verità che in esse sono presenti. Al
contrario, più l’incontro con Cristo è profondo,
chiaro, irrinunciabile, più il cristiano sa vedere i segni della
sua attesa nel mondo, le tracce della sua presenza e della sua azione,
i punti dell’incontro.
Il fuoco della missione si accende quando lo Spirito Santo trasforma
i nostri cuori. È lo Spirito il protagonista della missione.
Egli la suscita e la guida. Il fuoco della missione si accende quando
lo Spirito ci trascina fuori da Gerusalemme, fino ai confini del mondo
(cf. At 1,8). Lo Spirito opera due miracoli assolutamente necessari
per la missione: trasforma il discepolo in missionario (l’azione
dello Spirito è sempre dal chiuso all’aperto, dal particolare
all’universale) e attualizza l’evento storico di Gesù
(accaduto in un tempo e in un luogo), rendendolo disponibile per ogni
tempo e ogni luogo.
Se l’incontro con il Signore Gesù Cristo è decisivo
perché la missionarietà attecchisca nel cuore di ciascuno
di noi e nelle nostre comunità, questo è perché
in lui si manifestano l’amore e la misericordia come tratto essenziale
del volto di Dio, vero e autentico Padre. È l’essere rivelatore
del Padre che fa di Gesù il luogo più luminoso in cui
scorgere la figura evangelica della missione. Egli ha rivelato il Padre
facendo missione, mostrando cioè - con la sua incondizionata
accoglienza, libera da qualsiasi volontà di discriminazione -
che di quell’unico Padre tutti gli uomini sono chiamati a riconoscersi
figli.
È di questo amore universale che ogni comunità cristiana
deve farsi testimone. Gesù si è circondato di discepoli
- la sua vera famiglia! -, ai quali ha dato tempo e cure, ma la sua
preoccupazione non ha mai cessato di essere sempre per tutti. Egli ha
pensato al gruppo dei discepoli in funzione della missione. I vangeli
documentano che Gesù portava con sé i discepoli nella
sua missione itinerante. Insieme con lui i discepoli erano costantemente
davanti alla folla.
Nel vangelo di Marco si legge che «ne costituì Dodici che
stessero con lui e anche per mandarli a predicare» (3,14-15).
Lo stare e l’essere inviati sono fra loro saldamente congiunti,
in un rapporto che si potrebbe dire circolare. È stando con Gesù
che si comprende l’urgenza e la natura dell’andare: perché
andare, dove andare, per quale annuncio. Ma è andando che si
sta veramente in compagnia di Gesù: egli infatti è sempre
in movimento, itinerante, senza fissa dimora: «Il Figlio dell’uomo
non ha dove posare il capo» (Mt 8,20).
2. Un incontro da cui
ripartire
Il Papa ce lo aveva detto tante volte: ripartire da Cristo! Vi confesso
che ho durato fatica a far mio questo appello ed ora vorrei condividere
con voi un punto che considero strategico nel futuro della pastorale
e della coscienza missionaria delle nostre comunità e di tutti
noi. In questa settimana ho affrontato questo argomento con le Monache
clarisse della mia diocesi alle quali ho predicato un corso di esercizi
spirituali dal tema “con Paolo e come Paolo, ripartire da Cristo”
con sorprendente interesse e accoglienza da parte di tutte. Ci siamo
resi tutti conto di quanto cammino ci sia da fare in questa direzione.
Concretamente: proveniamo tutti da un lontano passato in cui l’incontro
con Gesù è avvenuto per il tramite della Chiesa….
Ora è tempo che lo stare nella Chiesa, il condividere la sua
vocazione e la sua missione riparta da Gesù: ovvero è
tempo di ridare alla relazione con la Chiesa un rilievo secondo perché
è la relazione con Gesù che deve emergere con forza come
relazione prima. È infatti con Lui e a partire da Lui che dobbiamo
ridisegnare ogni relazione: con noi stessi, con le nostre comunità,
con la comunità ecclesiale, con l’azione pastorale della
Chiesa nel mondo… Ci accorgeremo facilmente quanto ha da guadagnarci
la Chiesa e quanto abbiamo da guadagnarci ciascuno di noi… In
questo contesto prende corpo il tema della mia relazione. Parleremo
di vocazione e della dimensione missionaria di ogni vocazione. Incominciamo
con il fare chiarezza sul termine vocazione.
3. Ogni vocazione nasce
da un amore, racconta un amore e domanda amore
Benedetto sia Dio - esclama San Paolo, scrivendo alla comunità
cristiana di Efeso(1,3-6) - Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi
e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a
essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo
il beneplacito della sua volontà.
Scelti e chiamati all’amore! All’amore si risponde con l’amore.
Solo così se ne può gustare tutta la bellezza e l’efficacia.
E non è un amore qualsiasi. Non avremmo mai immaginato che cosa
significa dare alla nostra esperienza umana il volto dell’amore
se colui che è Amore da sempre non avesse assunto un volto umano
e, dopo averlo assunto, non avesse vissuto l’amore come l’unica
stella polare del suo cammino. Ancora San Paolo, questa volta scrivendo
alla comunità cristiana di Filippi (2,6ss) , ci suggerisce di
avere in noi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù
il quale, pur essendo di natura divina…spogliò se stesso
assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso
in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente sin o alla
morte e alla morte di croce.
Gesù è il volto dell’amore secondo il cuore di Dio.
Nessuno ha potuto e saputo vivere come lui la vocazione all’amore
vivendola da uomo. Ed abbiamo visto che cosa significa fare dell’amore
la ragione della nostra vita e porre l’amore come timone della
nave della nostra esistenza. Significa immaginarsi servi dell’amore
e andare là dove l’amore ci porta senza alcuna paura. L’amore
è la principale virtù: sostiene la fede, incoraggia la
speranza. L’amore resterà per sempre e sempre alla fine
sarà vittorioso.
La vocazione all’amore ci orienta così a pensare che la
nostra stessa vita è un dono. Se la vocazione è un dono,
in realtà proprio facendo della nostra vita un dono noi diveniamo
vocazione per gli altri. Siamo infatti tutti responsabili della vocazione
dei fratelli e delle sorelle. Siamo noi - facendoci dono - che andiamo
a raccontare a tutti questa splendida buona notizia che fa della vita
di ogni persona umana una vita che ha un senso in ogni occasione e situazione.
Rispondendo alla vocazione all’amore ci prendiamo così
cura della vocazione dei fratelli e delle sorelle. E se non lo facciamo
il Signore ci chiede - come fece con Caino che aveva appena ucciso Abele:
“dov’è tuo fratello?”.
La missione - come si vede - sgorga dalla vocazione e ne costituisce
il naturale orizzonte. La gioia è piena se possiamo condividerla,
comunicarla…
4. Nella duplice fedeltà: a Dio e all’uomo
del nostro tempo
Si affermava al n. 1 del documento preparatorio del convegno ecclesiale
di Verona:
Domande acute sorgono dai mutati scenari sociali e culturali in Italia,
in Europa e nel mondo, e ancor più dalle profonde trasformazioni
riguardanti la condizione e la realtà stessa dell’uomo.
Nel tramonto di un’epoca segnata da forti conflittualità
ideologiche, emerge un quadro culturale e antropologico inedito, segnato
da forti ambivalenze e da un’esperienza frammentata e dispersa.
Nulla appare veramente stabile, solido, definitivo. Privi di radici,
rischiamo di smarrire anche il futuro. Il dominante “sentimento
di fluidità” è causa di disorientamento, incertezza,
stanchezza e talvolta persino di smarrimento e disperazione.
In questo contesto i cristiani, «stranieri e pellegrini»
nel tempo (1Pt 2,11), sanno di poter essere rigenerati continuamente
dalla speranza, perché le tristezze e le angosce del tempo sono
«gettate» nelle mani del «Dio di ogni grazia»
(1Pt 5,7.10). Essi accolgono pertanto con gioia l’invito evangelico,
rinnovato dalla lettera apostolica Novo millennio ineunte, a “prendere
il largo” (cfr Lc 5,4).
In questo prendere il largo mi sembra opportuno utilizzare una prima
bussola. Ci sono - evidenti - alcune sintonie che ci orientano ed alcune
domande che ci interpellano sia sul versante socio culturale che sul
versante ecclesiale. Da esse non può prescindere la prospettiva
di un nuovo e vigoroso impegno missionario.
5. Le sintonie
Mi ha favorevolmente sorpreso Benedetto XVI quando inizia la sua Deus
Caritas est ponendosi una domanda. Dice il papa:
Il termine “amore” è oggi diventato una delle parole
più usate ed anche abusate, alla quale annettiamo accezioni del
tutto differenti…Ricordiamo in primo luogo il vasto campo semantico
della parola “amore”: si parla di amor di patria, di amore
per la professione, di amore tra amici, di amore per il lavoro, di amore
tra genitori e figli, tra fratelli e familiari, dell’amore per
il prossimo e dell’amore per Dio. In tutta questa molteplicità
di significati, però, l’amore tra uomo e donna, nel quale
corpo e anima concorrono inscindibilmente e all’essere umano si
schiude una promessa di felicità che sembra irresistibile, emerge
come archetipo di amore per eccellenza, al cui confronto, a prima vista,
tutti gli altri tipi di amore sbiadiscono. Sorge allora la domanda:
tutte queste forme di amore alla fine si unificano e l’amore,
pur in tutta la diversità delle sue manifestazioni, in ultima
istanza è uno solo, o invece utilizziamo una medesima parola
per indicare realtà totalmente diverse?
Poi egli inizia quella splendida analisi semantica, storica e biblica
che a noi ora non interessa. Interessa invece il grido del cuore che
sale irresistibile dall’umanità di sempre: amore! Posso
garantirvi che la pastorale ordinaria è lì a rimandarci
di continuo messaggi del genere (basti pensare all’esperienza
che si rinnova ogni volta in occasione di un funerale, dove tutti fanno
a gara nel voler ricordare i gesti di amore compiuti dal caro defunto…;
un matrimonio, dove neanche lontanamente gli sposi si pongono il problema
che l’amore che li unisce potrebbe finire…; un battesimo,
dove babbo e mamma fanno a gara nel riconoscere una vocazione del figlio
diversa e oltre la loro…; l’esperienza dell’adolescente
che non ha alcuna paura nel gettarsi fra le braccia dell’amore
come la cosa più bella e stimolante che possa accadergli nella
vita…).
6. Il dramma di un
amore solitario
Ma è quella dell’amore umano un’esperienza che inesorabilmente
manifesta una incompiutezza che si rivela come un vero e proprio dramma
esistenziale. Dice alla persona che non può vivere senza amore
ma non gli dona naturalmente le coordinate per dare volto a quell’amore
che è sorgente di vera autentica gioia. La persona umana scopre
ben presto che non è abbastanza il modo solo umano di rispondere
a questo drammatico bisogno d’amore. Dice il limite dell’eros
sottratto e scardinato dall’agape. Ancora il Papa in DCE:
5. Due cose emergono chiaramente da questo rapido sguardo alla concezione
dell’eros nella storia e nel presente. Innanzitutto che tra l’amore
e il Divino esiste una qualche relazione: l’amore promette infinità,
eternità — una realtà più grande e totalmente
altra rispetto alla quotidianità del nostro esistere. Ma al contempo
è apparso che la via per tale traguardo non sta semplicemente
nel lasciarsi sopraffare dall’istinto. Sono necessarie purificazioni
e maturazioni, che passano anche attraverso la strada della rinuncia.
Questo non è rifiuto dell’eros, non è il suo «
avvelenamento », ma la sua guarigione in vista della sua vera
grandezza.
Ciò dipende innanzitutto dalla costituzione dell’essere
umano, che è composto di corpo e di anima. L’uomo diventa
veramente se stesso, quando corpo e anima si ritrovano in intima unità;
la sfida dell’eros può dirsi veramente superata, quando
questa unificazione è riuscita. Se l’uomo ambisce di essere
solamente spirito e vuol rifiutare la carne come una eredità
soltanto animalesca, allora spirito e corpo perdono la loro dignità.
E se, d’altra parte, egli rinnega lo spirito e quindi considera
la materia, il corpo, come realtà esclusiva, perde ugualmente
la sua grandezza. Ma non sono né lo spirito né il corpo
da soli ad amare: è l’uomo, la persona, che ama come creatura
unitaria, di cui fanno parte corpo e anima. Solo quando ambedue si fondono
veramente in unità, l’uomo diventa pienamente se stesso.
Solo in questo modo l’amore — l’eros — può
maturare fino alla sua vera grandezza…
Sì, l’eros vuole sollevarci «in estasi» verso
il Divino, condurci al di là di noi stessi, ma proprio per questo
richiede un cammino di ascesa, di rinunce, di purificazioni e di guarigioni.
Ci sentiamo inteneriti di fronte a quest’uomo perché nel
DNA della nostra esperienza credente troviamo proprio la buona notizia
che risponde a queste domande: la buona notizia è Gesù:
luce, vita, via, verità, sorgente, dimora dell’amore, per
usare soltanto alcune delle definizioni che egli ha usato per presentare
sé stesso come risposta di vita alle domande dell’uomo.
Come?
7. Consegnato all’amore
perché l’amore lo ridonasse alla vita
Cristo, mia speranza è risorto, fa dire la sequenza pasquale
ad una stupita, confusa ed esultante Maria di Magdala. La resurrezione
di Gesù, ragione della nostra speranza. Ma di quale speranza?
Di quella che ci accompagna ogni volta nei giorni pieni di trepidazione
del triduo pasquale perché Gesù aveva consegnato alla
sua resurrezione la credibilità di quanto aveva detto e specialmente
fatto con una vita consacrata all’amore.
Riuscirà davvero - ci chiediamo ogni volta vedendolo appeso alla
croce - che l’amore sconfiggerà la morte?
L’essersi abbandonato, pieno di speranza, nelle mani del Padre
permetterà a Gesù di sperimentare una vittoria così
travolgente come quella della Resurrezione. Lo dice lui stesso in un
momento drammatico del suo dialogo con la sua gente: Disse allora Gesù:
“Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete
che Io Sono e non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato
il Padre, così io parlo. Colui che mi ha mandato è con
me e non mi ha lasciato solo, perché io faccio sempre le cose
che gli sono gradite”. A queste sue parole, molti credettero in
lui (Gv 8,28-32)
Non ha ceduto alla tentazione di fare da solo nella sua vita - pur essendo
il creatore del mondo - ed ha fatto invece della sua umanità
un dono all’Amore e agli amati - in una struggente relazione sponsale
- fino alla fine.
Ecco la risposta a questa domanda di vita e di amore che sale struggente
dal cuore degli uomini, di ogni uomo! E tutti abbiamo bisogno di lui,
di essere con lui, con lui morire per poter risorgere di continuo allo
stupore della riuscita quando ci doniamo all’Amore e agli amati.
È Cristo la sorgente interiore che consente a ciascuno di noi
di rispondere in modo radicale alle sfide alle quali è sottoposta
di continuo la vocazione all’amore alla quale tutti siamo chiamati.
La Resurrezione di Gesù dice di non aver paura ad accogliere
tale chiamata all’amore secondo il cuore di Dio vivendo una vita
responsoriale come l’ha vissuta Gesù: perché è
ciò che rende pienamente uomini! Dice insomma a ciascuno di noi
di non temere ad immaginare una vita dove lo spendersi in un amore unico,
fedele, indissolubile - sia nel matrimonio che nella vita consacrata
- sia l’unica ragione della vita: è ciò di cui abbiamo
bisogno per essere - come ci dice il nostro cuore quando ci innamoriamo
davvero - completamente appagati e veramente felici! La nostra vocazione
non è tanto possedere l’amore ma lasciarci conquistare
dall’amore. Senza sapere dove l’amore ci porterà.
Osservando attentamente Gesù nel mistero pasquale non è
difficile vedere come egli abbia in realtà interpretato il sogno
di ogni uomo. E non è difficile osservare che proprio in quel
“non mi ha lasciato solo” c’è la ragione profonda
della riuscita! Non bisogna restare soli se vogliamo vivere d’amore!
E tale solitudine non può essere riempita da niente e da nessuno
se non dalla relazione con Dio che ci ha fatti per sé…
Il nostro cuore sarà sempre inquieto - ci ricorda S. Agostino
- finché non si riposa in lui.
Se superiamo la paura di seguirlo, se sapremo restare in lui e per il
suo tramite nella relazione trinitaria, il sogno di ogni uomo prenderà
ancora una volta carne in ciascuno di noi.
Il Concilio Vaticano II ha in qualche modo fissato questa splendida
verità quando afferma, nella Gaudium et Spes al n. 22: In realtà
solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero
dell’uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello
futuro (Rm5,14) e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è
il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore
svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua
altissima vocazione.
8. Ogni uomo è
destinatario e attende questo annuncio, questo invito, questa chiamata:
nella diversità delle risposte!
Nessuno può vivere senza questo dono. Sarebbe destinato a navigare
senza vedere le coste, senza vedere un faro, senza avere una rotta.
La vita si sfascerebbe negli scogli o si arenerebbe nelle secche. Gli
appuntamenti che la vita porta con sé e interpellano resterebbero
senza risposta e getterebbero nell’angoscia.
Ogni persona che viene alla vita ha bisogno di sapienza che viene dall’alto,
che conquista nel profondo del cuore, che rende capaci di ragionare
secondo il cuore di Dio, perché questa vita terrena non si trasformi
in una condanna a morte ma divenga: un pellegrinaggio di vita e verso
la vita, di luce e verso la luce, di gioia e verso la gioia…
La vocazione all’amore. Sì ma quale? Se c’è
una chiamata all’amore che ci riguarda tutti, siamo tutti chiamati
a viverla nella stessa maniera e in maniera univoca? E allora come si
spiega la differenza evidente che c’è tra l’essere
donne e essere uomini nel modo così diverso di vivere l’amore?
E perché è così diverso in un bambino, in un adolescente,
in una babbo, in un nonno?… Non si nota forse anche soltanto dal
punto di vista umano che c’è un infinità di modi
diversi di realizzare la vocazione all’amore?
Sì, è proprio così: una sola vocazione ma tanti
modi per realizzarla. Ci aiuta ancora San Paolo il quale nella prima
lettera scritta ai cristiani di Corinto (12,4ss) afferma: Vi sono poi
diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono
diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono
diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera
tutto in tutti. E a ciascuno è data una manifestazione particolare
dello Spirito per l’utilità comune…tutte queste cose
è l’unico e il medesimo Spirito che le opera, distribuendole
a ciascuno come vuole. Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte
membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così
anche Cristo. E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in
un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o
liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito. Ora il corpo
non risulta di un membro solo, ma di molte membra…Ora voi siete
corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte… Aspirate
ai carismi più grandi! E io vi mostrerò una via migliore
di tutte.
La vocazione all’amore si realizza in pienezza in modalità
diverse alle quali noi diamo appunto il nome di vocazioni. Anche Gesù
ha ricordato a tutti la vocazione all’amore come condizione della
persona umana ma ha chiamato alcuni a seguirlo nella scelta di vita
che egli aveva operato per sé: la vocazione all’amore vissuta
nella via verginale non è stato un impedimento all’esperienza
sponsale e feconda di Gesù. Tutt’altro! E non lo sarà
neanche per coloro che, nella vocazione al celibato del ministero ordinato
o alla professione dei consigli evangelici nella consacrazione, sono
destinati a realizzare pienamente l’amore.
La scoperta di questa vocazione personale è importantissima:
è dono prezioso che permette ad una persona non solo di sapere
chi è ma come diventare quello che è. È la rotta
della vita per giungere al porto della felicità eterna del Paradiso.
Mi sembra molto bello in proposito quanto ci diceva il Santo Padre in
occasione del Congresso Europeo per le Vocazioni del 1997. Ascoltiamolo
insieme: La vita ha una struttura essenzialmente vocazionale. Il progetto
che la riguarda, infatti, affonda le radici nel cuore del mistero di
Dio: «in Lui - in Cristo - Dio ci ha scelti prima della creazione
del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità»
(Ef 1,4). Tutta l’esistenza umana, pertanto è risposta
a Dio, che fa sentire il suo amore soprattutto in alcuni appuntamenti:
la chiamata alla vita; l’ingresso nella comunione di grazia della
sua Chiesa; l’invito a rendere nella Comunità ecclesiale
la propria testimonianza a Cristo secondo un progetto del tutto personale
e irrepetibile; la convocazione alla comunione definitiva con lui nell’ora
della morte. Non v’è dubbio pertanto che l’impegno
della Comunità ecclesiale nella pastorale vocazionale sia uno
dei più gravi e urgenti. Ogni battezzato, infatti, deve essere
aiutato a scoprire la chiamata che, nel progetto di Dio, gli è
rivolta e a rendervisi disponibile. Sarà così più
facile, a chi è destinatario di una vocazione particolare a servizio
del Regno, riconoscerne il valore ed accettarla generosamente. Non si
tratta infatti di educare le persone a fare qualcosa, bensì a
dare un orientamento radicale alla propria esistenza ed a compiere scelte
che decidono per sempre del proprio futuro (Giovanni Paolo II , Messaggio
al Congresso Europeo, 29 Aprile 1997, n. 2).
In questo contesto, la vocazione che raggiunge il cuore di una persona
e la orienta a fare della sua vita un dono - a tempo pieno e con cuore
indiviso - perché questo annuncio di gioia e di vita raggiunga
il cuore di ogni persona umana che nasce alla vita, è affascinante
e sarà sempre necessaria.
Esprime infatti ed interpreta la maternità della Chiesa proprio
in quell’anelito divino che la spinge a rintracciare per le vie
del mondo tutti i suoi figli. I più lontani sono i più
vicini al cuore del Signore: la Chiesa lo sa, lo sente nelle sue profondità
e chiede ad alcuni di noi di farci interpreti in modo speciale ed esclusivo
di questa passione missionaria “alle genti”.
Ma anche queste vocazioni nascono, crescono e maturano all’interno
di un modo “normale” di sentirci missionari. E ciò
che definisce tale normalità è sentirci destinatari di
un dono così grande da non poter tacere. Una comunità
cristiana che nasce da questa passione e che coltiva questa passione
è il terreno per una fecondità vocazionale piena anche
in riferimento alle vocazioni missionarie di coloro che “partono”.
9. Quali i contenuti
della missione perché essa sia annuncio e memoria di questa vocazione?
la relatività del tempo presente (a Diogneto)
l’amore come presupposto di ogni storia: secondo il cuore di Dio
(non c’è uomo che non ci creda…)
la commensalità come principio di condivisione e di solidarietà
(cum-pane)
l’aiuto fraterno in questo essere pellegrini non è un optional
perché su di esso alla sera della vita io sarò giudicato
(sarete beati se…)