Postmoderno
ovvero la crisi dei fondamenti
La prima parola che incontriamo non può che essere postmoderno.
Essa non designa principalmente una serie di eventi storici, quanto
piuttosto una nuova sensibilità, un nuovo insieme di valori,
un nuovo modo di intendere il tempo e la storia, insomma una condizione
postmoderna. In questo senso il postmoderno designa prima di tutto un
nuovo modo di vivere, uno stile di comportamento.
Le principali metanarrazioni che hanno segnato il cammino della modernità
sono a giudizio di Lyotard, l’illuminismo con al centro l’esaltazione
dei poteri della ragione, cui hanno fatto seguito l’idealismo
e lo storicismo padri del grande mito del progresso.
La scienza nuova: dal trionfo alla crisi
Nel volgere di un paio di secoli si passa dalla millenaria concezione
“fissa” dell’universo ad un’altra tutta incentrata
sull’idea di movimento inteso sia come evoluzione biologica delle
specie (Darwin) che come allontanamento progressivo dei corpi celesti
(Hubble). Fino al novecento, però, regna incontrastata la fiducia
di riuscire a dominare questo grande e perfetto meccanismo tramite un
ferreo determinismo, che ha come suo linguaggio i concetti della matematica
e della fisica.
Scienziati come Einstein, o Heisenberg hanno incrinato la fiducia nella
possibilità di potere determinare e prevedere con esattezza tutti
i fenomeni fisici. In particolare Einstein con la sua teoria della relatività
ha introdotto un concetto, quello di relativo appunto, che ha avuto
una larga diffusione anche nella mentalità comune. Gli sviluppi
della scienza del novecento hanno poi favorito il diffondersi di una
mentalità incentrata sempre più sui concetti di probabilità,
casualità e come si dice recentemente complessità.
La cultura postmoderna, che si caratterizza, quindi, per la scomparsa
della fiducia in un unico punto di unificazione della realtà,
che, al contrario, si presenta sotto molteplici aspetti: è una
realtà plurale, che non può essere nè riconciliata
nè unificata.
Il nichilismo
Un altro tratto che fa parte della coscienza postmoderna è senz’altro
il cosiddetto nichilismo diffuso da F.Nietzsche a cavallo tra la fine
dell’ottocento e l’inizio del novecento. Esso culmina nella
celebre affermazione della «morte di Dio». Dio, come spiegherà
M. Heidegger, altro nume tutelare del postmoderno, visto come il termine
che raccoglie in sè ogni tentativo di dare un fondamento oggettivo
e normativo al mondo e all’uomo, è morto, e noi l’abbiamo
ucciso.
In continuità con Nietzsche, pensatori come G. Bataille, o H.
Marcuse hanno fatto coincidere l’ethos con l’eros fino alle
sue estreme conseguenze, mostrandone così gli esiti paradossali
e nefasti. L’eros, per Bataille, lasciato in completa balia di
sé, si scopre dominato da una sorta di continuo rialzo della
posta in gioco, che non si accontenta di unirsi all’altro ma lo
vuole possedere interamente fino ad annullarlo. Da tali premesse è
risultata anche una abnorme esaltazione della diversità in tutte
le sue forme, considerata come un nuovo fondamentale valore.
Il tempo della misericordia
Uno degli esiti più nefasti della postmodernità è
stato il diffondersi del nichilismo. Ora però siamo, malgrado
tutto, inequivocabilmente posti di fronte all’inconsistenza ed
al fallimento etico e culturale cui esso approda. Se questo ennesimo
insuccesso spalanca da un lato baratri di angoscia, dall’altra
esso può essere colto come un’occasione provvidenziale
per annunciare il cuore della buona notizia cristiana: l’annuncio
della misericordia del Padre che opera particolarmente in favore della
pecora perduta.
L’esperienza di Abramo
L’avventura di essere cristiani è in primo luogo avere
fiducia in Dio. Questa è una grande novità che porta a
ridefinire tutta la propria esistenza. Le storie contenute nella Bibbia
non sono dei semplici esempi da imitare, ma parlano effettivamente di
noi, delle nostre dinamiche, delle nostre paure e desideri e di come
Dio intervenga in essi. Per questo ognuno vi si può riconoscere.
Non a caso sempre Paolo afferma che Abramo è “nostro padre
nella fede” (Rm 4,11) poiché i cristiani, ma prima di loro
già gli ebrei, e dopo per molti aspetti anche i musulmani, riconoscono
nella sua esperienza di Dio un momento fondamentale del proprio cammino
religioso.
La vicenda di Abramo e Sara ci introduce in modo diretto alla scoperta
della novità di Dio che si prende cura dell’uomo e della
donna così come sono e si offre a loro come amico fidato. Abramo
è anche colui che ci invita a riscoprire la bellezza della fede,
del fidarsi di Dio, che è l’unica condizione perché
la novità di Dio possa dispiegarsi in tutta la sua potenza all’interno
della nostra vita e sentiamo l’urgenza di comunicarla agli altri.
La nostra esperienza
Le promesse che Dio ha fatto ad Abramo e Sara all’inizio della
loro storia sono valide anche per noi. Dio chiama ogni coppia umana
a fidarsi di lui, a seguirlo per costruire insieme con lui una storia
nuova, a ricevere benedizione e fecondità. La loro vicenda coniugale
comincia con l’esperienza triste della sterilità: letta
simbolicamente questa è una dimensione che tocca tutti i coniugi.
Non esiste, infatti, solo una sterilità della carne, ma ne esiste
anche una, a volte più dolorosa della prima, di tipo relazionale.
Ebbene Dio ancora una volta ci sorprende perché si presenta a
noi, proprio come fece con Abramo e Sara, come uno che si prende cura
delle nostre sterilità, piccole o grandi che siano, e ci offre
la promessa che propria grazie a loro potrà accadere qualcosa
di nuovo e insperato.
Dalla delusione alla gioia: i discepoli di Emmaus
Un altro episodio ci può aiutare a capire le dinamiche del cambiamento.
In questo brano il punto di partenza è molto interessante
perché si tratta di due discepoli che sono rimasti profondamente
delusi dall’operato di Gesù. Essi avevano investito tutta
la loro vita per andargli dietro, sicuramente avranno dovuto vincere
molte resistenze del loro ambiente.
Gesù però ai loro occhi si è rivelato deludente.
Dopo una prima fase in cui tutto sembrava andare per il meglio (le folle
accorrevano, Gesù e loro stessi compivano numerosi miracoli,
ecc.) sono cominciati i guai. Gesù, infatti, capisce che per
essere messia come vuole il Padre, occorre morire e morire in malo modo,
rischiando di coinvolgere anche loro nel suo gorgo incomprensibile.
E qui è scattata la delusione non senza una certa dose di rabbia
e rimpianti forse per non aver dato ascolto alle tante voci che
dentro e fuori di loro ammonivano “te l’avevo detto...”.
Per questo, ora se ne vanno a Emmaus, lontani da Gerusalemme, il luogo
dove si è consumata la tragedia, la morte in croce di Gesù,
che ha mandato in frantumi il loro modo di capire come e cosa debba
fare il messia.
Come si comporta Gesù? Come riesce a trasformare la delusione
dei discepoli nella gioia per il riconoscimento della sua presenza?
Come riesce cioè a cambiare il loro cuore deluso?
Le tappe del cambiamento operato da Gesù
Il cambiamento del cuore deluso dei due discepoli comincia con un paziente
lavoro di accompagnamento da parte di Gesù, che si avvicina all’altro,
camminando gratuitamente con lui. In secondo luogo, Gesù dà
ai due, e in filigrana a ciascuno di noi, la possibilità di esprimere
il proprio vissuto, la propria delusione. Tutte le volte che pensiamo
che Gesù, o Dio, ci deludano si provano sentimenti di tristezza
e di rabbia che spesso tendiamo a non manifestare. Nel nostro brano
invece Gesù invita i due a tirare fuori tutta la rabbia
e la tristezza che hanno nel cuore perché senza questa opera
non lo si può riconoscere, anche se lui è presente e risorto.
Solo dopo questa prima fase, Gesù comincia a parlare di tutto
quello che lo riguardava in relazione alle Scritture. È
questo il momento del “riscaldare il cuore” attraverso
la Scrittura, che illumina e chiarisce le vere e le false immagini di
Dio. Se lo avesse detto prima, lo avrebbero rifiutato: ora Gesù
parla di sé, al punto che gli altri lo vogliono trattenere con
loro. Molto finemente, Gesù fa come se dovesse andare oltre,
perché non vuole imporre la sua presenza. Una volta accolto in
casa, benedice e spezza il pane con loro. Gesù compie un gesto
pregnante di riconoscimento, ma prima di arrivare a questo punto
c’è tutto un percorso per far sì che la “griglia”
degli interlocutori si sia allenata ad aprirsi. Ora finalmente i due
discepoli capiscono il senso della morte drammatica di Gesù,
quella morte che ha causato il loro distacco. Compreso questo non è
più necessario “vederlo” e con il cuore pieno di
gioia possono ritornare, anche se è notte, nella comunità
dei discepoli per condividere l’esperienza fatta.
Marco
Tibaldi, (45 anni ) è sposato
e ha quattro figli,
laureato in filosofia presso l’Università di Bologna e
in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma.
Insegna introduzione al Mistero Cristiano e Antropologia Teologica
presso l’ISSR (Istituto Superiore di Scienze Religiose) Santi
Vitale e Agricola di Bologna.
Ha una vasta esperienza sul problema del primo annuncio.
Alcune sue pubblicazioni:
"Annunciare Gesù
Invito al mistero cristiano”
“Ecco faccio nuove tutte le cose"
insieme a V.Bulgarelli
“Trasformare l'handicap"
"Kerygma e atto di fede nella teologia di H.U. von Balthasar"