Prato
4 Marzo 2007
Ciò che ci interessa notare, è la capacità di Paolo di leggere la cultura idolatra greca senza lasciarsi rinchiudere nella gabbia del fustigatore dei costumi altri. Il testo riporta esattamente la reazione di Paolo a passeggio per la grande capitale dell’ellenismo “fremeva nel suo spirito al vedere la città piena di idoli” (At17,16), un po’ come capita a noi di fronte a molti programmi televisivi dal Grande fratello al wrestling, però questo sdegno non gli impedisce di avere una comunicazione efficace ed accogliente verso i suoi interlocutori: prova ne è che ogni giorno discuteva sia con i giudei nella sinagoga ma anche “sulla piazza principale con quelli che incontrava” (At 17,17). Paolo non cade nel tranello della predicazione fustigatoria, che alla fine darebbe solo sfogo alla rabbia accumulata senza generare una vera comunicazione. Non si rifugia nemmeno nell’attesa dei suoi collaboratori (Sila e Timoteo che attendeva a giorni) per fare con loro la comunità dei ‘puri’, di coloro che rischiano di essere accomunati solo dalla critica negativa del mondo circostante. Paolo è qui capace di compiere quella ‘sospensione del giudizio’ di cui parlavamo prima, di ‘digerire’ la rabbia che la visione di tanti idoli, giustamente, gli provoca, perché non vuole che questa rabbia diventi un impedimento alla sua missione. Se
la sua predicazione fosse stata di condanna, ben presto lo avrebbero
lasciato perdere. Come Gesù, che aveva la capacità di
accogliere proprio i lontani (i peccatori e i pubblicani lo ascoltavano
volentieri Lc 15,1), così le discussioni intavolate da Paolo
suscitano interesse, al punto da coinvolgere anche esponenti delle due
scuole filosofiche allora dominanti in Atene, quella stoica e quella
epicurea. Sono loro che lo invitano all’areopago, prestigiosa
istituzione politica e culturale dell’Atene classica, ma anche
una sorta di talk show ante litteram poiché, come annota il redattore
degli Atti, “gli ateniesi non avevano passatempo più gradito
che parlare e sentir parlare” (At 17,21). Programmi come il Grande fratello segnano il superamento di una nuova soglia dell’impatto dei mezzi di comunicazione sulla realtà. La loro novità consiste nel mettere sotto l’occhio delle telecamere delle persone normali osservate nel loro relazionarsi. In essi si fa leva sul desiderio del telespettatore di vedere delle ‘storie vere’ sui temi cruciali dell’esistenza come l’innamoramento (Stranamore), la seduzione (Uomini e donne), la prova (L’Isola dei famosi) la ricerca della propria realizzazione (Amici) l’accettazione o il rifiuto del proprio corpo (Bisturi) ecc. La novità è che le persone che vengono coinvolte in questi programmi non seguono un copione determinato, ma offrono la loro vita all’occhio deformante e moltiplicatore della televisione e in questo modo pensano di risolvere e affrontare i problemi della vita medesima. C’è insomma una ricerca di interpretazione della propria esistenza, che non si riesce più a trovare in quei luoghi che istituzionalmente dovrebbero veicolarla, pensiamo ad esempio alla scuola o alla comunità ecclesiale. La risposta dei media è chiaramente insufficiente, distorta com’è dalle logiche commerciali che la governano e dalla visione dell’uomo che viene presentata, però fa leva su un bisogno autentico che va capito e accolto. La riscoperta dell’annuncio Questo annuncio però
si presenta in una forma che non è immediatamente intelligibile.
Se parliamo infatti dell’annuncio fondamentale che i vangeli ci
presentano, subito salta agli occhi la presenza inquietante della morte
di Gesù: non è forse il crocifisso il simbolo di identificazione
del cristianesimo? Come può essere una buona notizia un racconto
incentrato sulla morte del protagonista, come sono di fatto i vangeli?
La sua poi non è una morte eroica, sulla breccia, ma una morte
da ‘povero Cristo’, abbandonato e tradito da tutti, una
morte inutile, che si poteva evitare. Come può essere il salvatore
di tutti, ed anche il ‘mio’, colui che non riesce a salvare
se stesso? Perché non si parla subito e solo della resurrezione,
saltando questo momento? Ed infine che razza di Dio e Padre è
quello che lascia il Figlio in quella situazione? E se permette che
suo figlio si trovi in quella situazione cosa avrà in serbo per
me? Occorre conoscere e tener ben presenti queste obiezioni, che sono il vero impedimento per potersi accostare al messaggio evangelico. Esse infatti stanano subito il vero problema dell’uomo, che il vangelo intende affrontare, per così dire, prendendolo per le corna: il problema della morte e della paura che essa suscita (Eb 2,14-15). L’uomo teme la morte in tutte le sue manifestazioni, da quella biologica alle esperienze che la richiamano, come i fallimenti, le delusioni le perdite di ogni genere, proprio perché si percepisce fatto per la vita, anch’essa nel duplice senso di salute, ma anche intesa come realizzazione e relazione. Come fare allora? La risposta è semplice anche se non scontata: ripartendo dal vangelo, ovvero ripercorrendo la vicenda che ha condotto Gesù alla morte e alla resurrezione. Entrare nel vangelo significa entrare nella trama di relazioni che Gesù ha intessuto con i vicini e i lontani della sua epoca. Se si ha la pazienza di ripercorrere le esperienze che i vangeli ci consegnano, si può scoprire passo dopo passo come Gesù ha affrontato il problema della morte. La sua morte infatti non è stata un incidente imprevisto, ma una scelta attraverso la quale dimostrare nel concreto la sua disponibilità al servizio incondizionato per ogni uomo. In questo modo, Gesù andando fino in fondo dimostra che nulla gli può impedire di compiere l’unica cosa che intende fare: amare. È questo che capiscono, non a caso per primi, proprio coloro che hanno maggiore famigliarità con la morte, come il centurione romano che, “vistolo spirare in quel modo” (Mc 15,39) riconobbe in lui il Figlio di Dio. Solo calandosi nei panni dei personaggi evangelici, si può gustare la forza del gesto di Gesù, intuire che il segreto che apre alla resurrezione è proprio il suo modo di morire (At 2,24) e cominciare a scoprire che tutto questo è vero anche per noi. Per approfondire
Marco
Tibaldi, (45 anni ) (nella foto con P. Corrado Trivelli segretario delle
Missioni) è sposato e ha quattro figli, laureato in filosofia
presso l’Università di Bologna e in Teologia presso la
Pontificia Università Gregoriana di Roma. |