Con la sua relazione, sviluppata principalmente sulla base dei documenti
pontifici, Giovanni Minnucci ha illustrato il ruolo dei laici all’interno
della Comunità ecclesiale. Già nel 1988 Giovanni Paolo
II, con l’esortazione apostolica “Christifideles laici”,
ricordando il famoso passo del Vangelo di Matteo (20,3), invitava i
laici a non oziare nella piazza ed a recarsi nella “vigna del
Signore”, un’espressione che, recentemente, abbiamo avuto
il piacere di sentire da Benedetto XVI che, al momento dell’elezione,
ha voluto definire sé stesso come un umile servitore della medesima
“vigna”.
Muovendo da queste premesse, il relatore ha sviluppato il suo discorso
soffermandosi, innanzitutto, su quelle che Giovanni Paolo II definì
le “emergenze attuali del mondo”: una visione quasi profetica
perché già da allora (1998) il Santo Padre aveva individuato
i problemi che avrebbero attanagliato il passaggio dal Secondo al Terzo
Millennio: l’indifferentismo religioso e l’ateismo, la dignità
umana calpestata, la conflittualità di persone, gruppi, nazioni
e blocchi di nazioni che avrebbe potuto assumere forme di violenza,
di terrorismo, di guerra.
Di qui il grido, ripetuto, ma inascoltato, di “aprire..spalancare
le porte a Cristo”; di qui il pressante invito, rivolto soprattutto
ai fedeli laici di rispondere alla “chiamata di Dio”. Il
mondo diventa l’ambito e il mezzo della vocazione cristiana dei
fedeli laici: è in esso che deve svolgersi la loro missione.
Il richiamo è forte: i laici debbono svolgere la loro attività
evangelizzatrice nel mondo vasto e complicato della politica, della
realtà sociale, dell’economia, della cultura, della scienza,
delle arti, della vita internazionale, né possono minimamente
giustificare il proprio disimpegno da questi ambiti anche se, alcuni
di essi, vengono indicati dall’opinione comune come luogo di pericolo
morale: tutto ciò non giustifica minimamente né lo scetticismo
né l’assenteismo dei cristiani dalla cosa pubblica.
I laici
al giro di boa del millennio
È comunque
nell’Enciclica “Redemptoris missio” del 1990 che Giovanni
Paolo II si sofferma, in maniera più specifica, sulla permanente
validità del mandato missionario. La Chiesa, infatti, non può
sottrarsi alla missione permanente di portare il vangelo a quanti (milioni
e milioni di uomini e donne) ancora non conoscono Cristo, redentore
dell’uomo. La realtà che è sotto gli occhi di tutti
risulta profondamente e velocemente mutevole.
L’urbanesimo, le migrazioni di massa, il movimento di profughi,
la scristianizzazione di paesi di antica cristianità, il pullulare
di messianismi e sette religiose, deve indurre la Chiesa ad una nuova
missione: se da un lato, infatti, occorre rievangelizzare quei popoli
di secolare tradizione cristiana che tendono ad ignorare e dimenticare
la propria fede e le proprie radici, dall’altro non si deve sottovalutare
la necessità di portare il messaggio evangelico a coloro che
ancora non conoscono il Cristo.
Il Papa propone soprattutto la creazione e il rafforzamento di istituzioni,
gruppi e centri speciali, iniziative culturali e sociali per i giovani
per i quali debbono impegnarsi tutti i movimenti ecclesiali. Ma è
soprattutto la testimonianza la prima forma di evangelizzazione: tutti
nella Chiesa debbono sforzarsi di imitare il Divino Maestro, possono
e debbono dare tale testimonianza. E la testimonianza evangelica, a
cui il mondo è sensibile, è quella dell’attenzione
per le persone e della carità verso i poveri e i piccoli, verso
chi soffre.
La gratuità di questo atteggiamento e di queste azioni, che contrastano
profondamente con l’egoismo presente nell’uomo, fa nascere
precise domande che orientano a Dio e al Vangelo. Ed anche l’impegno
per la pace, la giustizia, i diritti dell’uomo, la promozione
umana è una testimonianza del Vangelo, se è segno di attenzione
per le persone ed è ordinato allo sviluppo integrale dell’uomo.
Accanto a ciò - sostiene ancora Giovanni Paolo II - occorre aprire
sempre di più il dialogo inter-religioso che fa pienamente parte
della missione evangelizzatrice della Chiesa.
Costruire
il bene della pace
Un messaggio, quest’ultimo,
che Benedetto XVI ha accolto in pieno quando, a pochi giorni dall’elezione,
ha ricevuto, nella Sala Clementina, i rappresentanti delle Chies e e
Comunità cristiane e di altre religioni non cristiane e quando
ha celebrato il 40° anniversario della “Nostra Aetate”,
la Dichiarazione con la quale il Concilio Vaticano II aprì una
nuova fase sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane
e con l’ebraismo. In queste occasioni il Santo Padre, pienamente
in linea con il suo predecessore, ha voluto sottolineare che solo il
dialogo, la conoscenza reciproca ed il conseguente rispetto degli uni
verso gli altri, può contribuire a costruire ponti di amicizia
al fine di ricercare il bene autentico di ogni persona e della società
nel suo insieme, ed a costruire il bene della pace.
Un tema al quale Benedetto XVI, come è ormai tradizione, ha dedicato
il messaggio del 1 gennaio 2006. Ricordando di aver scelto questo nome,
sia per riferirsi al S. Patrono d’Europa, ispiratore di una civilizzazione
pacificatrice nell’intero Continente, sia al suo predecessore,
Benedetto XV, che condannò la I Guerra Mondiale come “inutile
strage”, il S. Padre ha richiamato l’umanità intera
al servizio di un bene tanto prezioso, lavorando perché non si
insinui nessuna forma di falsità tesa ad inquinare i rapporti
fra i popoli.
“Occorre recuperare - sostiene ancora il S. Padre - la consapevolezza
di essere accomunati da uno stesso destino, in ultima istanza trascendente,
per poter valorizzare al meglio le proprie differenze storiche e culturali,
senza contrapporsi ma coordinandosi con gli appartenenti alle altre
culture. Sono queste semplici verità a rendere possibile la pace...”.
Compito dei cristiani che, in tal modo, operano come veri e propri missionari
è ancora una volta rendere testimonianza: “i credenti in
Cristo debbono farsi testimoni convincenti del Dio che è inseparabilmente
verità e amore, mettendosi al servizio della pace, in un’ampia
collaborazione ecumenica e con le altre religioni, come pure con tutti
gli uomini di buona volontà”.
Non poteva essere ignorata, infine, dal relatore, l’ultima Enciclica
di Benedetto XVI: sulla quale, come ha preannunciato, apparirà
nel prossimo numero della nostra Rivista una sua riflessione.
Bisogno
di umanità
Deus caritas est!
Dio è amore! L’incipit, tratto dalla prima lettera di Giovanni
(1 Gv. 4,16), costituisce il centro e il fondamento della fede cristiana.
Emerge, immediatamente, la prima grande preoccupazione di Benedetto
XVI: in un’epoca nella quale, al nome di Dio vengono spesso collegati
la vendetta e “il dovere dell’odio e della violenza”,
occorre riaffermare con forza che Dio è amore, e che se l’uomo,
in nome di Dio, commette i delitti più atroci, nega, alla radice,
l’esistenza stessa di Dio. Il messaggio del Papa è quindi
molto chiaro. A coloro che vorrebbero gettarci, in nome di Dio, in una
spirale di odio e di violenza, la risposta è netta: i cristiani
amano”.
Ma la chiave di volta dell’Enciclica, sotto il profilo della missionarietà,
è costituita dal richiamo della parabola del Buon Samaritano.
Con questo passo evangelico cambia sostanzialmente il concetto di “prossimo”:
con il Cristo esso non è più riferito essenzialmente ai
connazionali o agli stranieri stanziatisi nella Terra di Israele, ma
a chiunque. “Chiunque ha bisogno di me e io posso aiutarlo, è
il mio prossimo. Il concetto di prossimo viene universalizzato e rimane
tuttavia concreto. Nonostante la sua estensione a tutti gli uomini,
non si riduce all’espressione di un amore generico ed astratto,
in se stesso poco impegnativo, ma richiede il mio impegno pratico qui
ed ora” (nu. 15). L’appello è forte e chiama tutti
ad assumersi le proprie responsabilità sia come singoli, sia
come membri delle Chiese particolari o della Chiesa universale. L’elemento
che deve essere sottolineato, è costituito dall’approccio
che il Papa propone nel compimento delle opere di carità.
Non v’è dubbio, infatti, che, in un mondo “globalizzato”,
nel quale i mezzi di comunicazione di massa ci mettono in condizione
di conoscere, quasi in tempo reale, le grandi emergenze dell’umanità
intera, non si possa restare, di fronte ad esse, indifferenti. Il Papa
ci ricorda che stiamo parlando di esseri umani, verso i quali non si
deve nutrire il semplice sentimento della compassione, e che costoro,
gli ultimi della terra, necessitano di qualcosa di più di una
cura tecnicamente corretta o di interventi professionalmente avanzati:
essi “hanno bisogno” soprattutto “di umanità.
Hanno bisogno dell’attenzione del cuore”. Hanno bisogno,
in conclusione, di uomini che, attraverso l’amore, testimonino
l’amore del Cristo verso l’umanità.
Giovanni
Minnucci è nato ad Alatri (Frosinone) nel 1954.
Si è laureato in Giurisprudenza nell’Università
di Siena.
Si è perfezionato con un soggiorno di studi presso la University
of California, Berkeley (USA) nel 1982/1983.
Già docente presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università
degli Studi di Perugia (1992/1995)
è attualmente professore ordinario di Storia del diritto italiano
nell’Università di Siena
dove insegna anche Storia del diritto canonico e Storia delle Istituzioni
Politiche.
È Direttore di Dipartimento.
Già appartenente alla Gioventù Francescana, dal 1983 è
membro della fraternità OFS di Siena.
È socio fondatore e componente del Consiglio Direttivo dell’Istituto
Storico Diocesano di Siena
e Presidente dell’Istituto senese di studi cateriniani.