Mons. Francesco GioiaSempre in missione...
Mons. Francesco Gioia, vescovo cappuccino, ci porta al cuore dell'essere cristiani e missionari

Una relazione dall’alto profilo dottrinale: così può essere definita la conversazione che mons. Francesco Gioia, vescovo Cappuccino, ha tenuto lo scorso 9 giugno, nel Convento di Prato, nell’ambito degli “Incontri di Formazione” organizzati dal Centro di Animazione Missionaria sotto la guida del P. Corrado Trivelli, alla presenza di numerosi collaboratori provenienti da tutte la parti della Toscana.
L’uomo d’oggi, ha esordito mons. Gioia, non è mai stato così vicino e al tempo stesso così lontano dagli altri. Infatti, qualora si pensi all’uso delle moderne tecnologie, che consentono di porsi in comunicazione con il resto del mondo in tempo reale, appare evidente la facilità con la quale l’uomo può mettersi in relazione con i suoi simili;

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allo stesso tempo non può non essere sottolineata la superficialità con la quale si realizzano i contatti umani. Sembra quasi che i moderni mezzi di comunicazione invece di migliorare i rapporti fra individui li abbiano sostanzialmente ridotti a pura forma. L’uomo non usa i mezzi di comunicazione ma rischia di farsi usare, di asservirsi ad essi. Al centro non vi è più l’uomo con la sua dignità: il rischio, ormai evidente, è che l’essere umano diventi soltanto un ingranaggio al servizio di un sistema finalizzato esclusivamente al profitto.
I relatori: (da sin.) P. Corrado, Evelina Scalera e Mons. Francesco GioiaIl cambiamento in atto, che si sostanzia in una forte modifica dei rapporti sociali (dal condominio alla società globalizzata), che si caratterizza per una superficialità dei rapporti umani, pone molte domande al cristiano, lo costringe ad un continuo esame di coscienza, lo pone di fronte a scelte di vita: cosa vuol dire essere cristiani oggi? Non si pensi, beninteso, ad una religione che deve modificare le sue verità per adeguarsi ad una società in continuo cambiamento, ma a quelle risposte che il cristiano deve dare passando continuamente dal Vangelo alla vita e dalla vita al Vangelo, in una continua ricerca di Dio, della Sua volontà, dei mezzi per realizzarla.
Nel Medio Evo l’Europa coincideva con la Christianitas, dal che derivava una sostanziale unità di fede, l’uniformità dei principii cardine della società; oggi, nel mondo “globale”, con una circolazione di idee, di fedi, di credi, di usi e consuetudini fortemente diversi, come deve agire il cristiano? La risposta, secondo il vescovo Gioia è molteplice.
Occorre innanzitutto recuperare le radici, tornare al Gesù storico: “Andate per tutto il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura… (Mc. 16,15)”. E’ questo il compito primario che il Cristo ha lasciato agli Apostoli e, per il loro tramite, a tutti noi. Occorre un cristianesimo maturo e la maturità si misura unicamente attraverso la missionarietà. Ma la missione non è compito esclusivo di coloro che, per antonomasia si recano “in missione”, come i religiosi ed i laici che portano il messaggio evangelico in quelle terre nelle quali Cristo non è ancora conosciuto; la missione è compito di tutti noi, nel mondo del lavoro, nel rapporto quotidiano con gli altri, perché essere missionari significa innanzitutto essere testimoni.
Mons. Gioia con il Vescovo di Prato Mons. Gastone SimoniA differenza delle altre fedi che chiamano i fedeli verso il luogo di culto principale, il Cristianesimo possiede una forza centrifuga, una forza che si irradia all’esterno, che spinge ad evangelizzare tutto il mondo. Per il cristiano si impone quindi una crescita spirituale. Non ci si può limitare alle pie pratiche, né rinchiudere negli amati luoghi di culto o credere che si adempia al mandato ricevuto unicamente attraverso i pellegrinaggi nei luoghi della fede. Buoni in sé questi comportamenti ma insufficienti per realizzare il compito primario del cristiano: essere contestualmente missionari e testimoni di Cristo. Quei luoghi debbono essere la fonte dalla quale trarre la forza spirituale per andare nel mondo, per ottemperare al dettato evangelico, per vivere una vita spiritualmente e sostanzialmente aderente a Cristo.
Non si deve dimenticare, inoltre, l’importanza della preghiera e la partecipazione assidua al Sacrificio eucaristico. Cosa offriamo durante la S. Messa, memoria del sacrificio di Cristo, se non le nostre sofferenze, i nostri dolori, le nostre pene! Il sacrificio eucaristico è il fondamento della nostra fede, è la Fonte dalla quale sgorga acqua pura che disseta l’uomo e che rende fertile la terra. E’ da qui che deve muovere il nostro essere missionari e testimoni della fede. Come nell’apologo di Menenio Agrippa, così deve concretizzarsi il rapporto tra Cristo e gli uomini. Egli è il Capo; agli Apostoli, ai loro successori, ai laici (le membra) è conferito il mandato di evangelizzare. Non ci sarebbero più pagani se ci comportassimo da veri cristiani! Il sacrificio di Cristo è il modello: a lui si sono ispirati i Padri e i grandi filosofi (mons. Gioia cita Agostino e Pascal) che ci hanno lasciato grandi insegnamenti. La nostra testimonianza deve essere totale, il nostro annunzio fermo: Dio è Padre, il Figlio suo è morto sulla croce prendendo su di sé i peccati del mondo. Non possiamo prescindere da questa Verità.
Impegno, Responsabilità, Preghiera, Testimonianza. In queste quattro parole può essere racchiuso il messaggio che in questa giornata pratese ci ha lasciato il Padre Gioia.
L’impegno, che deve essere costante, che non deve mai mancare, soprattutto nei momenti nei quali sembra che i problemi del mondo ci sovrastino, che il nostro agire non fruttifichi. Impegno disinteressato, sempre gratuito, sempre finalizzato al bene altrui. Impegno che si concretizza nell’amore per l’altro, nel dono all’altro. E tutto ciò deve essere responsabile: occorre sempre tenere presente che la nostra fede è fondata sul sacrificio del Figlio di Dio fatto uomo, che il nostro pellegrinaggio terreno deve essere condotto alla luce del Vangelo. Ma senza la preghiera, una preghiera intima e comunitaria, che rafforzi la nostra fede, che ci ponga in relazione con Dio e, per mezzo della Sua luce, con gli uomini, non potremo dare testimonianza della nostra Fede. E la testimonianza non è altro che il momento finale, se si vuole la sintesi, attraverso cui il cristiano manifesta la sua fede al mondo per renderlo sempre più aderente al disegno di Dio.
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Maria EvelinaMaria Evelina Scalera, volontaria missionaria, ci racconta i miracoli dell’amore che vive in Bolivia.

È difficile immaginare una realtà diversa dalla nostra, con la quale si entra in contatto solo per sentito dire. Quando si parla del terzo mondo, la nostra fantasia corre verso situazioni di indigenza estrema come la mancanza di acqua, di cibo, di farmaci e, di sicuro, non si sbaglia. Ma c’è un aspetto che siamo portati, senza per questo essere dei superficiali, a sottovalutare: è il vivere quotidiano. Lo stillicidio della miseria e delle privazioni cui le popolazioni povere sono sottoposte, alla fine ha come effetto paradossale quello di veder assommarsi alle povertà materiali, anche una forma di arrendevolezza che sfocia nell’abbrutimento. I turisti e i curiosi in genere, si mettono facilmente la coscienza a posto parlando di adattamento, come se l’andare a razzolare nei bidoni dei rifiuti per recuperare qualcosa da mangiare o il dover far posto in casa alla scrofa che ha appena dato alla luce una cucciolata di porcellini, debba essere ritenuto normale per gente dell’emisfero australe.
Maria Evelina accanto a P.CorradoQuando Maria Evelina è andata in Bolivia - e già aveva fatto 17 mesi di esperienza in un ospedale sulle Ande del Perù - si aspettava l’incontro choccante con la povertà, con le malattie, ma forse non immaginato la promiscuità che si contrappone al pudore dentro le povere mura di fango, la mancanza assoluta dello spirito previdente che programma e pianifica un semplice progetto familiare, la diffidenza nei confronti di chi diceva che per risollevarsi bisogna cominciare dal togliere l’analfabetismo nei giovani, l’egoismo delle persone che, abituate alla sopravvivenza, eludevano, appena possibile, il principio della solidarietà. Ultimo problema, ma non certo in ordine di importanza, almeno sul piano sociale, che veniva ribadita ad ogni occasione di incontro-scontro, la contrapposizione tra le diverse confessioni religiose. Il pueblo di Jukumarka, che non conta trecento anime, viveva di dispetti e ripicche animate dai diversi modi di vedere e di praticare la propria fede.
Jukumarka (Bolivia): alcune donne del villaggioLa strada da percorrere è ancora molto lunga e il rischio delle discordie e delle gelosie è sempre dietro l’angolo. La mediazione, la diplomazia e la costanza sono doti più importanti, nel vivere quotidiano, delle maestrie professionali, se si vuol vedere la realizzazione di qualche progetto. Oggi, dopo oltre due anni di vita tra la gente del pueblo, Maria Evelina ha visto la realizzazione della scuola elementare, la costruzione della cappellina che ha anche la funzione polivalente di ambiente di ritrovo, utilizzabile dalle varie confessioni; l’allevamento dei maiali in forma di cooperativa i cui soci sono gli stessi abitanti del pueblo; le serre per l’ortocultura e si sta lavorando ai progetti dei telai e dell’allevamento di animali da angora. Tutto questo grazie alla generosità di coloro che, rinunciando ad una parte dei propri agi, hanno permesso che i loro fratelli lontani, intravedessero la via della emancipazione e della dignità. q