BoliviaBolivia: una lunga storia di promesse disattese

Jukumarka per molti è solo un nome da pronunciare con una certa difficoltà; per altri, forse, più esperti di geografia, è un puntino disegnato sul mappamondo; ma per gli abitanti di questo piccolo villaggio a 4000 m. di altezza sulle Ande boliviane, è molto di più: è la vita.
Una vita povera, come povera è l’intera nazione; una vita sudata, nel tentativo di trarre da una terra ingenerosa quel poco, che per necessità e non per virtù, basta a sfamare i suoi abitanti; una vita aperta ad un futuro più ridente, segnata dalla speranza che il domani non sarà più così, o forse, più semplicemente, che ci sarà un domani. Una vita che alcuni di noi, hanno avuto la possibilità di carpire almeno in parte, attraverso le immagini di un breve filmato, che fugacemente l’hanno ritratta.
Per me è stato così, e confesso che quelle sequenze sono ancora vive nella mia mente. Sequenze di una semplicità sconcertante, perché tale è la sobrietà nella quale si è costretti a vivere da quelle parti; sequenze edificanti, perché ci ricordano l’avventura (mi si passi questa espressione) che sta vivendo, ormai da qualche anno Evelina, missionaria senese della Comunità Giovanni XXIII: la sua vita con gli ultimi di Jukumarka; la casa da lei gestita per il recupero di donne alcolizzate (vera piaga della Bolivia); i volti bruciati dal sole dei bambini, forse dai tratti somatici diversi dai nostri, ma ugualmente implacabili ispiratori di tenerezza.
Sono state quelle immagini, a convincermi sulla opportunità (in primo luogo per me stesso) di poter condividere un pezzetto di vita con questa gente, che sta guardando l’esistenza con occhi necessariamente diversi dai miei. E sono state ancora queste immagini a farmi cogliere al volo l’occasione di guidare un campo lavoro in quelle terre tante volte sognate e maestre di una umanità spesso dimenticata nel nostro mondo efficiente.
Peccato però che i sogni siano destinati ad infrangersi contro la realtà, una realtà cruda, una realtà imprevedibile, una realtà fatta di uomini e donne che lottano ogni giorno; che piangono le loro miserie; che a volte gioiscono delle loro vittorie; che qualche volta muoiono: la realtà, appunto, della Bolivia, della quale Evelina mi ha raccontato in una sua lettera e che io mi permetto di riproporvi, ringraziandola fin d’ora per questa sua inconsapevole, ma genuina testimonianza, che completa meglio di ogni altro mio commento il presente scritto.
«Caro p. Piero, sono Evelina dalla Bolivia.
[…] Da più di un anno si trascinano conflitti tra stato e contadini, ci sono stati momenti calmi e altri di scontri. Il metodo che la federazione dei contadini usa per farsi ascoltare è quello di bloccare tutte le strade per impedire l’ingresso o l’uscita di prodotti alle città. Da una parte questo li sfavorisce perché chi vende i prodotti di generi alimentari sono sostanzialmente loro, ma dall’altra è l’unico modo che hanno per obbligare lo stato al dialogo.
Sono state fatte delle leggi ingiuste (l’ultima é di far pagare una tassa sul numero di animali che hanno o sull’acqua delle sorgenti che viene usata nei villaggi dove non arriva la rete idrica cittadina).
Ad aprile e poi a ottobre 2000, ci sono stati questi blocchi, poi lo stato cercava di prender tempo facendo promesse (in genere non le ha mai mantenute); nell’attesa le cose tornavano alla normalità, aspettando che queste promesse si traducessero in realtà. Nei blocchi di ottobre, che sono durati un po’ più di un mese, ci sono stati 15 morti (tra esercito e contadini).
La federazione campesina aveva dato un termine perché lo stato realizzasse gli accordi presi ad ottobre, ma purtroppo le cose sono andate diversamente e così dalla mezzanotte di oggi ribloccheranno le strade.
Fino all’ultimo sembrava che fosse possibile che questo dialogo continuasse e che fossero solo minacce. Ne avevo parlato con p. Daniele, ma se anche le cose rimanessero solo a questo livello, pensare a un campo di lavoro risulta un po’ più complicato.
Se venite e la situazione si calma e poi mentre siete qua succede qualcosa, penso che l’esperienza bella che potrebbe essere, rischierebbe di diventare traumatizzante per dei ragazzi che magari non conoscono la realtà sudamericana, e non vorrei rischiare di bruciare niente, anche nel loro modo di conoscere una realtà missionaria.
Così forse la cosa migliore è di aspettare un pochino per poter organizzare meglio il campo di lavoro e posticiparlo a quando le acque si saranno calmate. […]
Un abbraccio e grazie, Evelina. 30/06/2001».
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